Analizzare la mia pittura, la mia strada, la sostanza, non è facile, anche se condurrà ad un'auto-critica molto semplice, molto sintetica, ma ritengo efficae. Occorre però fare una premessa.

Decisivo, per la mia pittura, fu l'incontro con un Personaggio con la P maiuscola, che venne nel 1957.

Con una punta d'orgoglio e di affetto dico che Hans-Joachim Staude, attraverso frequentazioni non quotidiane, ma continue nel tempo, fu il mio maestro d'arte e anche di vita, fino a quando non scomparve nel 1973.

Gli esordi al suo studio in via de' serragli: un viaggio attraverso il disegno, il colore, la pittura all'aria aperta, le "visioni" del paesaggio, poidalla natura morta alla figura; la semplificazione, i concetti di volumi e di masse, posare, spazzare, pulire dissodare il giardino, piantare i fiori, le prime collettive, la prima personale del 1964, qualche vendita e la scoperta dei colori acrilici, tempi eroici che a volte rimpiango.

Con la morte del Maestro, il grande disorientamento, poche possibilità di confronto con altri pittori, le "mode" dell'astratto e dell'informale, l'isolamento dei figurativi, gli studi universitari e il conseguente rallentamento, ma non il blocco della pittura,

sporadiche personali, qualche atelier di fortuna, il lavoro sempre più pressante, la nascita di mia figlia, tutte situazioni che rendevano la vita più pesante, ma nello stesso tempo più intrigante.

Ad alleviare le tensioni il contributo di mia moglie Anna con la sua pazienza e la sua saggezza di donna.

Guardavo i miei lavori con molto spirito critico, cercandovi una positività che a volte non trovavo, grandi sforzi per comprenderne il contenuto, ma il risultato fu quello di avere un blocco psicologico quasi totale, non avevo più certezze.

Tutto si risolse quasi all'improvviso quando Angela, la figlia di Staude, in occasione di una mia esposizione, ad una domanda sulla mia pittura che ritenevo troppo "scopiazzante" quella del Maestro, mi rispose in modo semplice ma significativo: "Paolo tu non scopiazzi, ma hai capito la lezione, vai avanti così, la pittura del babbo è un'altra". Poche parole per rinascere e mi gettai nuovamente a capofitto nella pittura a tempo pieno.

Acrilici, gessetti, pastelli e qualche olio, si accumulavano nello studio di via Fogazzaro. I primi mercanti in Liguria e in Roma, i veloci cambi degli studi, prima in campagna e poi in via Dorso, qualche vendita in più e maggiore sicurezza. Anche le esposizioni diventavano quasi annuali con effetti positivi.

Che dire, in sintesi come auto-critica della mia pittura: ritengo non presuntuoso affermare che è solida, coerente e matura, e detto questo credo di avere detto tutto.

Le varie situazioni mi hanno sempre dato e mi danno una grande gioia, stare nel bel mezzo di un campo silenzioso a lottare con i verdi, rincorrere il tempo che passa, le luci che arrivano, le ombre che corrono, comporre una natura morta, la scelta degli oggetti, dei fiori, tulipani che fuggono dal vaso, solide palle di ortensie, stelle di gerbere e, con minore intensità, la figura non per scarso interesse, ma per carenza di modelli. Operare per grandi volumi, masse di ombre e di luci, "affinchè diventi chiara l'anatomia" del lavoro come d'altronde diceva lo Staude, cercare l'ordine e l'equilibrio del soggetto sul supporto e vedere come il lavoro si trasformi in "quadro".

Credo di non avere altro da aggiungere, non mi piacciono discorsi intellettualistici, tali giudizi, più o meno oggettivi, stanno ai critici di professione, ai rarissimi giornalisti, ma soprattutto ai visitatori che, anche loro, possono apprezzare o meno il mio lavoro esposto.

Tutto il resto ha poca importanza, la via è questa.

Paolo Vannini

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