Presentazione della mostra “Paesaggi e memorie”

Oratorio di S. Antonio, Palazzuolo sul Senio (Fi), 2008

 

Paesaggi e memorie

            Io voglio perdermi nella natura, rigenerarmi con lei, come lei, avere i toni duri delle rocce, l'ostinazione razionale del monte, la fluidità dell'aria, il calore del sole. Dentro ad un verde, il mio cervello, tutto intero, scorrerà con la linfa fluente dell'albero.

                                                                       (P. Cézanne)

C'è un'idea di paesaggio che attraversa la storia della pittura, un'idea che riconosce nella natura lo specchio immutabile di tutto ciò che l'universo offre di più bello. Al volto caotico della città essa contrappone la quieta armonia delle forme naturali, che sono il rifugio del sentimento e della memoria, immagini di una bellezza che rasserena e riconcilia l'essere umano con se stesso. Una comunione tra individuo e natura a cui non basta, per compiersi, il caldo abbraccio dei sensi, il brivido delle “impressioni” che scuotono nel profondo anche il più cupo dei temperamenti, perché a motivarla è il desiderio di superare la cortina delle apparenze per diventare un tutt'uno con le cose, per raggiungere un non facile equilibrio tra il mondo dentro e fuori di noi. Riecheggiano, a tal riguardo, le parole di Giovanni Testori,

che parlò di “naturalismo di partecipazione” per definire l'esigenza del pittore moderno di non fermarsi alla sola osservazione del paesaggio quale realtà esterna all'uomo, ma di farne lo schermo delle sue verità interiori, una proiezione nello spazio delle passioni che intimamente agitano il suo cuore. Credo si possa attribuire a Paolo Vannini la capacità di “calarsi” nella realtà come farebbe un esploratore alla ricerca di un tesoro nascosto nelle viscere della terra. La sua poetica del vero assorbe e sfuma il dato reale non per trascenderlo, ma per stabilire un rapporto più sentito e vero con la natura, rapporto che nasce ogni volta che l'uomo si scopre solo di fronte all'eterno fluire degli eventi naturali. Una presa d'atto che si traduce, nel suo caso, in una vera e propria vocazione alla pittura di paesaggio, genere gravato da un'eredità pesante che egli ben conosce e che, specie in questa fase di piena maturità stilistica, ha saputo lasciarsi alle spalle per giungere ad una sintesi formale e cromatica di sicura originalità. Prescindendo da tali assunti non si comprenderebbe, infatti, la fedeltà assoluta ad un tema, quello della natura, che lo accompagna da sempre e che da sempre è al centro delle sue meditazioni pittoriche, e non per via di un'inspiegabile ostinazione, ma per amore delle forme e delle cose, che mutano e si rinnovano quando si offrono ad uno sguardo che, come il suo, sia in grado, ancora oggi, di commuoversi davanti alla maestosa umiltà di un vaso di fiori o alle nubi rosate di un mattino di primavera. Un intimismo che vive sotto l'epidermide della sua pittura e che segretamente si muove, senza mai sfociare in improvvisi slanci di passione che finirebbero, quasi inevitabilmente, per trasfigurare lo schietto realismo dei suoi riferimenti visivi. Per Vannini, è chiaro, la natura è una dimensione che va conosciuta con gli occhi e con il cuore, facendosi però guidare dalla sincera volontà di calibrare e dare la giusta misura ai sentimenti. Da una parte è il pennello, strumento vigile, servitore dell'occhio, a controllare l'immagine e a ricondurla entro una ben definita partitura realistica; dall'altra è la potenza dell'emozione a stemperare la severità dell'impianto scenico e a sostanziare un approccio più vivo e profondo al tema naturale. E' un modo per non essere né troppo fedeli né troppo sottomessi al modello che s'intende rappresentare, puntando, invece, al raggiungimento di un equilibrio tra la logica della natura e le ragioni del sentimento. La serie dedicata ai paesaggi di Palazzuolo sul Senio aggiunge alla gamma della sua sensibilità e al dominio sempre più felice dei toni una nota di curiosità verso un luogo di provincia dove è facile farsi catturare dalla bellezza incorrotta di uno scorcio naturale e dove, soprattutto, si ha l'impressione che sia ancora possibile assaporare il gusto di una quotidianità semplice, scandita da ritmi lenti. Il suo legame con questo piccolo angolo di mondo è paragonabile ad un'antica e solida amicizia a cui si accompagna la memoria di stagioni liete e di una calorosa affettività che torna a farsi sentire ogni volta che il pensiero corre lontano. L'Appennino con i suoi verdi intensi, i suoi dolci viola, i suoi azzurri cangianti è un gigante che cinge le distese a valle e le case rurali, come se il paesaggio tutt'intorno fosse uno scrigno di tesori da custodire e da preservare gelosamente. Ovunque, nei suoi quadri, si spande un calore di piena o di tarda estate, e la luce è una presenza amorevole che si riposa sui tetti, s'insinua tra gli alberi o si allunga con tenera sensualità sui prati che si accendono di sfumature inattese. Nell'aria alita una sommessa felicità di essere al mondo, di essere lì, in quel preciso momento, in quell'ora del pomeriggio o del mattino, a godere di uno spettacolo che la natura generosamente gli offre. E il suo modo di ricambiare tale dono è fissare sulla tela un'immagine che non sia soltanto l'impronta di un'impressione, per quanto verace e intensa, ma che unisca in un solenne e prolungato respiro sensi e sentimenti, il carattere effimero della visione e la persistenza, nella mente e nell'anima, del ricordo. Il nucleo emotivo intorno a cui tutto ruota avvolge le forme in un laccio vorticoso, quasi una forza vitale che investe ed agita le chiome degli alberi rendendoli simili ad uomini mossi da un'arcana inquietudine. Ogni forma è assediata e compenetrata dalla forma contigua in un serrato dialogo, di cézanniana memoria, tra i volumi e lo sfondo. Talvolta il chiaroscuro cromatico, che oppone ombre dense a luci molto vive, gli sembra il mezzo più potente, certamente quello più congeniale alla sua cultura toscana, per suggerire una sensazione di profondità e rilievo. Talaltra i volumi emergono in forza del conflitto coloristico con le superfici che fanno da sfondo (l'albero che si staglia e prende corpo nel contrasto con le pareti bianche e i tetti rossi delle case), come in un bassorilievo da cui affiorano delle protuberanze. Una riflessione di tipo strutturale che corrisponde alla necessità di dare forma, ordine e peso al colore in quanto elemento che disciplina i ritmi compositivi e regola gli effetti in lontananza, mai prospettici in senso tradizionale, ma volti a favorire una visione dall'alto in basso, tale che la terra occupa gran parte del campo visivo e il cielo è ridotto ad una striscia di poca importanza. Vi sono dei casi un cui la scena s'illumina di qualcosa che non può dirsi soltanto colore: è un impeto del cuore che trasfigura la realtà in un miraggio della coscienza o del sogno, un'oasi di serenità e di pace di cui si avverte la nostalgia ancor prima di allontanarsene. Una percezione non dissimile da quella che sentiamo nascere davanti a certe sue nature morte, in cui lo sguardo indugia con tenerezza su oggetti familiari: bottiglie, bicchieri, vasi di fiori, frutti e conchiglie, testimoni silenziosi di un vissuto consueto che attende di essere raccontato. Le cose parlano a chi sappia prestare ascolto alla voce della realtà. Vannini ha imparato a farlo perché ha creduto, e crede tutt'oggi, che il quotidiano sia il regno del possibile, delle certezze già assodate come di quelle che verranno sulla scia di nuove consapevolezze.

  Via Antonio D'orso, 3 - 503135 -Firenze
  +39 055 607454
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  vannini40@gmail.com

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