Presentazione della mostra “Paesaggi e dialogo”

Associazione Culturale GADARTE, Firenze, 1998

 

Paesaggi e dialogo

            Sono nella memoria di tutti quelli che “frequentano” la pittura del nostro Ottocento o del primo Novecento i paesaggi dei macchiaioli, che emigravano dal Caffé Michelangelo in via Cavour (allora via Larga) sulle colline intorno a Firenze, verso Fiesole e Settignano, armati solo di tavolozza, pennelli e qualche tavoletta tascabile. Guardavano i campi, le prode e le macchie di querce, di lecci, le nuvole argentate degli ulivi che si arrampicavano verso una casa colonica, verso una cresta di cipressi scuri, ogivali.

            Sembra che il paesaggio dei colli fiorentini sia rimasto appeso al ricordo indelebile, cristallizzato di quel paesaggio divenuto ormai storia.

            Per venire più vicini a noi, abbiamo già superato e catalogato il paesaggio di Soffici, mosso e sfocato da brividi tardo impressionisti, e quello più sintetico, architettonico, costruito di volumi precisi, di Ottone Rosai, reduce dalle esperienze futuriste, memore sempre del nostro Masaccio

che non tramonta. Poi, sulla metà di questo secolo ritroviamo le solide immobili quinte di Dino Caponi e i sognanti paesaggi di Tirinnanzi, quasi a evocare un passato che sfugge.

            Dobbiamo aggiornarci. Il paesaggio di Vannini è un passo avanti, un modo diverso, attuale, di sentire la natura amica, le colline, gli alberi, i campi, la sagoma di una casa colonica o di una villa tuffata nel verde. Sarebbero fuori tempo, anacronistici, gli occhi sereni e precisi dell'Ottocento che regolavano gli elementi della natura, del paesaggio come in una predella di Paolo Uccello e Pier della Francesca, specchio di una vita, di un ritmo e di una società più calma, silenziosa, che era durata dal Quattrocento fino a Cézanne, che aveva suggerito agli artisti, dopo l'analisi dell'Ottocento, la sintesi geometrica e la struttura architettonica al di sopra e al di là di ogni emozione, di ogni palpito passeggero.

            I paesaggi di Vannini sono quelli dell'epoca nostra, conoscono Cézanne, Soffici e Rosai, ma vivono un tempo più confuso, drammatico, denso di interrogativi, di dubbi, assillato dal frastuono, dalle voci stridenti e sincopate della nostra moderna civiltà. Vannini cerca, come noi tutti, un rifugio, una pausa di silenzio, per stabilire un dialogo con le cose, con la natura, che non è più di fronte a noi, ma dentro di noi, affamati come siamo di poesia e di interlocutori inanimati solo in apparenza, ma con i quali sentiamo di liberarci, di consolarci.

            Vannini non va molto lontano da casa, nelle isole felici o verso sconosciuti orizzonti. Riesce a trovare il suo Eden, il suo Paradiso sulle colline di Fiesole, di Settignano, come facevano i macchiaioli più di cento anni fa, come facevano Soffici e Rosai. Si aggira vicino ai Tatti, regno di Berenson, al Salviatino, regno di Oietti, frequenta Ponte a Mensola, luoghi dove coglie la perfetta armonia tra le case dell'uomo e i volumi, i verdi, i grigi, i ruggine degli alberi. Raramente si sposta più lontano, nel Casentino. Vannini resta nei dintorni a ritrovare se stesso e a identificare i propri fantasmi nei personaggi che incontra, con i quali stabilisce, come si diceva, un intimo dialogo.

            Non so se Vannini abbia molti amici, così severo, chiuso e schivo come si presenta. Ma certamente alberi, cespugli, campi silenziosi che salgono sulle colline sono i suoi amici, parlano con lui, diventano il riflesso, lo specchio dei suoi sentimenti più riposti, delle sue lotte, dei suoi problemi di vita e i confidenti dei suoi abbandoni, dei suoi pensieri poetici. Van Gogh trasfigurava nella sua accesa fantasia gli olivi argentei in una drammatica danza di personaggi deliranti, muoveva i severi chiusi cipressi come ondulate fiamme che parlano a un cielo turbinoso, sconvolto. Vannini parla con un paesaggio più calmo, composto, equilibrato, ma non estraneo, guardato come un oggetto. Riflette nei quadri le malinconie, i suoi rapimenti poetici, la fantasia sbrigliata dell'eterno ragazzo, che ha sempre bisogno di interlocutori per raccontare le favole, gli scherzi, i propri fantasmi.

            Era Leonardo, sempre lui, che annotava in uno dei suoi fogli preziosi come si possa leggere sulle nuvole sparse nel cielo dorsi di cavalli lanciati in corsa, e vedere nelle macchie di umidità su di una parete misteriosi ritratti, espressioni, sagome suggerite, più vere del vero. Vannini dipinge i fantasmi della natura, degli alberi e delle fronde, come Leonardo leggeva nelle nuvole e nelle macchie di una parete umida. Basta leggere qualche suo titolo: “l'istrice”, “la ballerina”, “i combattenti”, “lo spavaldo”, “la civetta”, “denti di gigante”, “le due mani”, “pinnacoli”, “fuga verso l'alto”. Si pensa ai soggetti come personaggi umani, come eroi, o forse animali, a mitiche creature che siano rimaste legate per qualche sortilegio alle fronde di un albero, al profilo di un tronco, alla nuvola chiara di un olivo.

            Nei dipinti di Vannini, costruiti con una tavolozza che varia da tutte le sfumature di verde a quelle del ruggine, rosa, violetto, dagli azzurri dei cieli di fondo ai bruni dorati delle colline, alberi e campi parlano in prima persona, i loro volumi di fronde si affiancano, si sovrappongono nei boschi, nei nuclei “familiari” al margine di una radura come un gruppo di studenti o di amici si accalca nel breve spazio di un fotogramma impazienti di essere ripresi, di rientrare nella magica “camera” di Vannini. Insieme alle colline che si affacciano calme contro il cielo lontano, non rappresentano solo la bella natura che l'uomo ha finito di modellare, ma tornano liberi, vergini, parlano anche di ansia, di ribellione, di abbandoni romantici e sentimentali. Una natura animata, quasi espressionista, quella di Vannini, che sembrava catalogata per sempre e torna giovane, densa di favole da raccontare.

            Anche i cipressi, personaggi familiari in Toscana, non sono soltanto verdi, come tutti li hanno dipinti; sono bordati di oro, quasi di arancio, di rosa, di ruggine nel profilo toccato dalla luce, perché la luce cambia i colori; anche quelli dei lecci, delle querce e degli olivi che come nuvole vaporose vanno dal grigio argenteo al verderame, al violaceo, mutevoli ed emotivi come ragazzi di una scolaresca che fremono di correre lungo il pendio di una collina.

            Per un artista sensibile come Vannini anche i fiori sono particolari. L'artista li sceglie non solo per il colore, ma per il loro volume preciso, solido, concentrato; grumi di energia, di sentimento. Penso alle ortensie, fiori preferiti, che chiama frutti-palle, come piumini, fiocchi di cotone appesi ai rami; penso ai grumi densi dei crisantemi contrapposti ai diosperi, sfere anch'essi, come le vecchie mele di Cézanne. E raramente si abbandona all'effusione, al sentimento scoperto, visibile, delle rose bianche, vaporose e bellissime, alla “potenza del viola” dei giaggioli, per arrivare al “rosso galleggiante” dei papaveri, indovinatissimi, dai petali vibranti come ali di farfalle.

            Nelle nature morte torna il rigore geometrico della sua solida struttura mentale e insieme il suo dialogo con le cose, con gli oggetti, familiari, preziosi, misteriosi come le bottiglie di Morandi. Ma la sua tavolozza è più viva, contrastata, moderna, come il riflesso di un caleidoscopio nel quale si muovono geometrici vetri smaltati. Sono ancora gli oggetti, i vasi, le tele accatastate, la tavola, la sedia, paesaggio dell'anima, interlocutori, amici di sempre, come gli alberi, i prati, le colline.

            Quelli, i paesaggi di fuori, all'aperto, questi i paesaggi raccolti dentro allo studio, nel proprio mondo interiore. Sono il suo punto di partenza e di arrivo, prima e dopo l'avventura alla ricerca di sé stesso, proiettato nella natura, nei ritmi e nei colori della bella apparenza.

  Via Antonio D'orso, 3 - 503135 -Firenze
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  vannini40@gmail.com

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