Presentazione della personale “Il mio verde fuori le mura”
Galleria Cortina, Roma, 1997
Molti sono gli artisti pronti a recidere drasticamente il rapporto con la tradizione, a inventare sempre e comunque un linguaggio che sia vicino alla propria sensibilità o alla propria epoca. Masaccio, Tiziano, Caravaggio, Cézanne, Picasso sono stati indubbiamente grandi “innovatori”.
Altri artisti invece sono propensi a esaltare la lezione dei maestri del passato, riproponendola in un modo più o meno aggiornato al gusto del tempo. Sono artisti definiti “retrospettivi” e fra questi Vasari, i Carracci, Maratta, Ingres, il Carrà post-futurista.
Non avrei dubbi nel considerare Paolo Vannini, allievo del grande maestro tedesco Hans Staude vissuto per molti anni a Firenze, un “retrospettivo”. A vedere i suoi dipinti si pensa infatti che l linguaggio figurativo elaborato in Europa tra gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento contenga in sé tutte le potenzialità espressive che un pittore moderno possa ancora desiderare. Il soggetto prediletto delle opere di Vannini, “il paesaggio”, come per Staude, è il più tipico e ambizioso che l'arte di quegli anni abbia rappresentato, coinvolgendo sempre una riflessione teorica sul senso della natura. “Per ottenere un progresso conta solo la natura, l'occhio si addestra mediante il contatto con essa”, diceva Cézanne; “voglio rappresentare la natura per mezzo del cilindro, della sfera e del cono, tutto nella giusta prospettiva....”. Cézanne e tutte le molteplici diramazioni della sua influenza (penso soprattutto al chiarismo lombardo di Lilloni, di Del Bon, di De Rocchi, di Spilimbergo) sono la più solida base di partenza, anche se inconsapevolmente, della pittura di Vannini.
Esiste in Vannini una chiara predisposizione a organizzare razionalmente l'impressione sensoriale della natura, a costruire sulla sua percezione visiva una sorta di percezione intellettuale, ottenendo da essa una rappresentazione sostenuta da un forte esprit de géométrie. E' importante sottolineare la voluta “antiquatezza” dei paesaggi toscani di Vannini riguardante l'ambiente, non lo stile, paesaggi incontaminati da ogni presenza riferibile alla civiltà industriale, come se l'autore condividesse con Cézanne anche l'esigenza di salvaguardare l'emozione ottica suscitata da scorci naturali che in futuro potrebbero esse modificati irreparabilmente.
Cézanne era un ecologista ante litteram, perfino più fanatico degli attuali membri di Greenpeace, e la convinzione di un'imminente distruzione della natura “vergine” costituiva la molla morale più pressante della sua memoria. “Ricordi il pino sulla riva dell'Arc?”, confidava Cézanne a Zola, “Possano gli Dei preservarlo dall'ascia distruttrice del boscaiolo!” E ancora: “Dobbiamo sbrigarci se vogliamo ancora vedere qualcosa. Tutto sta scomparendo”. Ho la sensazione che Vannini avverta desideri non diversi da quelli, allo stesso tempo ecologici, visivi e sentimentali, di Cézanne. La Toscana di Vannini è una terra mitica anche quando perfettamente uguale all'odierna; una terra dell'immagine “verde” e serena, come nei racconti dei nonni o nei ricordi dell'infanzia, una terra che in questa forma metastorica si è sedimentata nell'anima dell'autore. Una terra dove la civiltà, sua componente essenziale, è sinonimo di antico e di natura.
Un'altra componente storica determinante nella pittura di Vannini, che in qualche modo si sovrappone al “cézannismo” e ne mitiga gli effetti, è quella derivante dalla figurazione italiana degli anni Trenta-Quaranta o in particolare da “Strapaese”. Sebbene la stesura dei tratti cromatici risulti abbastanza istintiva e poco incline a subire la gerarchia del disegno, mai l'arte di Vannini arriva a sconfessare del tutto la grande tradizione italiana – e toscana soprattutto – nel riprodurre il gioco volumetrico dell'ombra e della luce. Piuttosto la semplifica drasticamente, così come un Carrà o meglio ancora un Rosai, smorzando sul nascere la tentazione di applicare alle immagini le scomposizioni di piani, care a Cézanne. Una maggiore liquidità del colore favorisce in alcune opere di Vannini una più efficace simbiosi tra l'esprit de géométrie cézanniano e la rudezza formale di “Strapaese”. Non trovo affatto spiacevole una certa naiveté di Vannini, una certa sua velocità di resa che, se da una parte può compromettere quella che in maniera un po' conformistica consideriamo la raffinatezza di una pittura, dall'altra aumenta enormemente l'energia espressiva dell'immagine. Per Vannini l'arte non è una questione di teorie della conoscenza o di chissà quali altre interpretazioni filosofiche, ma una necessità. La razionalità geometrica di Vannini è schiettezza che proviene dal cuore prima ancora che dal cervello o da qualsiasi mediazione culturale. Come ha fatto il suo maestro Hans Staude, Vannini elabora una produzione tesa a cogliere secondo le parole dello stesso maestro, il “sacro dell'azione, l'eternità silenziosa al di là del tempo”. Il punto di partenza, anche per Staude è Cézanne, ma il monumentalismo plastico, definito da una rigorosa alternanza di luce e ombra, è già tutto italiano, perseguendo indirizzi paralleli a quelli di “Valori Plastici” o di “Novecento”. La prima personale al Lyceum, nel 1940, vede Staude sempre più proteso a emancipare la sua ricerca formale della rappresentazione realistica della natura, che pure non disconosce nella sua verità universale. In questo senso Vannini, quasi da outsider (così chiamano i pittori istintivi “alla Dubuffet”), procede a “disintellettualizzare” ulteriormente il formalismo sul tipo di Rosai, volendo rompere, in nome di un arricchimento della componente individuale, la barriera che separa la spontaneità figurativa dall'ambito dell'arte colta.
Continuerà, Vannini, a dipingere i suoi paesaggi, la sua Toscana “verde” che non avverte alcun pericolo di mutamento apocalittico, cercando di non sottrarre ad essi il meglio della loro essenza lirica. Continuerà a farlo perché dipingendoli, dipingerà se stesso.